mercoledì 21 ottobre 2009

LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
E LA CRIMINALITA' ORGANIZZATA
NEL SUD DEL MONDO





Discussione di Laurea

Le immagini e le parole del video sono punti che esamino e riporto nel mio lavoro. La domanda finale del video, “Come può, il Governo italiano, offrire la propria collaborazione allo sviluppo dei paesi africani, quando non è capace di risolvere in patria i problemi del terrorismo e della mafia?”, mi è servita da input per partire con l’analisi del percorso storico della decolonizzazione e l’evoluzione storica delle Politiche di Cooperazione allo Sviluppo, fino ad arrivare ai nostri giorni e nel nostro Paese, per poi focalizzare maggiore attenzione alla criminalità organizzata nel Sud del mondo. L’Italia è un paese tristemente famoso per le Mafie e per le disgustose conseguenze che esse provocano; così, conoscendo i fatti nostrani (la criminalità organizzata, appunto), son passato alla ricerca ed all’analisi delle realtà criminali del Sud del mondo. In particolare, gli “Stati-Mafia”: Stati dotati di propri ordinamenti giuridici e politici, dove il controllo reale del territorio, tramite il monopolio della forza e l’imposizione di determinate norme, non è condotto dagli organi e dalle istituzioni legittime, ma è in mano a potenti organizzazioni criminali (o network) capaci di coordinare e coinvolgere altri soggetti e/o gruppi (politici, governativi, comuni cittadini) nel loro vasto intreccio di azioni.

Giusto per citare qualche esempio: si va dalle “Instant multinationals” Kosovare, ossia Partner d’Affari Criminali momentanei; si attraversano le acque somale, a bordo delle due Piraterie: quella Somala, che chiede i riscatti per la liberazione delle imbarcazioni sequestrate; e quella Internazionale, che ci vede coinvolti, assieme ad altri Stati ricchi e potenti, nella pratica della pesca illegale e nell’inabissamento di scorie tossiche industriali e nucleari. Per approdare, infine, alla “Mafia Raj”, che in Hindi significa “Regime mafioso”, e si articola in vari settori: la Mafia del Carbone, la Mafia del Legname, la Mafia Appaltatrice, eccetera.

Tutto questo che nesso ha con la Cooperazione allo sviluppo?

Lo si capisce bene, se si tiene in considerazione il fatto che la Cooperazione allo sviluppo lavora per lo sviluppo di queste realtà, ma se il lavoro e le risorse indirizzate in questi paesi vengono gestite da èlite politico-mafiose locali, si continua ad annaffiare, con la poca acqua a disposizione, delle mele marce: gli interessi delle organizzazioni criminali e quelli delle imprese degli Stati ricchi (che hanno delle entrate considerevoli), senza di fatto contribuire al reale sviluppo promesso.


Interessi Politico-Privati e l’Impulso umanitario, non neutrale, delle Ong

Una scomoda eredità del passato, non proprio tanto passato, vede la cooperazione italiana segnata da interessi privati o di parte. Negli anni che vanno dal 1987 al 1994, in Africa si combinano le iniziative di tutte le componenti della cooperazione italiana. La Dgcs concentra i propri sforzi (9 mila miliardi di lire, nel periodo considerato) nel continente africano, anche se parte dei finanziamenti vanno dritti in tasca ad imprese collaterali ai partiti della Prima Repubblica. In ugual modo agiscono le numerose Ong (laiche, cattoliche e sindacali) che, con i sostegni dello Stato Italiano, si catapultano nell’Africa Nera. Quasi indistintamente, poi, partiti di governo e di opposizione usano i fondi della cooperazione per alimentare, con opportune commesse, la macchina delle clientele che sorregge il sistema politico.

Altra questione, meritevole di attenzione, è la destinazione degli interventi di cooperazione; l’impulso umanitario, che dovrebbe muovere l’azione del volontariato di cooperazione, non è neutrale. A dimostrare ciò è la distribuzione delle Ong nel mondo, che non seguono un criterio in base al quale ci si concentri di più sui paesi più poveri e con emergenze umanitarie. La priorità delle Ong italiane, si può differenziare in base alla federazione-coordinamento di appartenenza: Focsiv e Cipsi (d’ispirazione Cattolica), che concentrano i loro interventi in aree ben definite, e il Cocis (Laica), che distribuisce le proprie Ong in modo più omogeneo.

In particolare, i 144 interventi che le Ong Focsiv svolsero in Africa (1994), si localizzarono quasi tutte nella parte non musulmana del Continente Nero.

Anche il Vaticano, secondo una relazione ministeriale del 1995, ha particolari interessi in Africa: buona parte delle controparti delle Ong italiane sono diocesi e arcidiocesi.

Cooperazione o Sussidi alle imprese?

Caso emblematico, sul finanziamento ad imprese italiane e sull’utilità dei progetti per la popolazione, è la faccenda Gilgel Gibe. Nel marzo del 2006 la Procura di Roma apre un procedimento penale (n. 16050/06) a carico della Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri, relativo alla concessione del più grande credito d’aiuto erogato attraverso il fondo rotativo: 220 milioni di euro per la costruzione dell’impianto idroelettrico di Gilgel Gibe II, in Etiopia. Si tratta di un tunnel di 26 Km che intende sfruttare, per produrre energia elettrica, la differenza di livello fra il bacino della diga Gilgel Gibe ed il fiume Omo. 500 km più a sud è anche attualmente in costruzione la megadiga Gilgel Gibe III, una barriera di oltre 240 metri iniziata nel 2006, una delle più grandi opere idroelettriche mai realizzate in Africa.

Oltre al nome, i tre impianti hanno in comune due elementi fondamentali: insistono sullo stesso bacino del fiume Omo, una regione di estrema importanza ambientale e culturale nel sud dell’Etiopia, e sono stati affidati dal Governo alla stessa impresa italiana, la Salini Costruttori S.p.A. I tre progetti mostrano un singolare caso di partnership pubblico-privato, dove il pubblico è rappresentato dall’Eepco, la società di gestione dell’energia elettrica, interamente controllata dal Governo etiope, ed il privato dalla Salini, un’influente impresa italiana con importanti interessi in diversi Paesi africani. Il primo episodio della saga Gilgel Gibe, viene finanziato dalla Banca Mondiale e dalla Banca Europea per gli Investimenti e la costruzione della diga viene affidata alla Salini tramite gara pubblica che la completa nel 2003. La diga causa lo spostamento forzato di 10.000 persone che subiscono un significativo peggioramento delle condizioni di vita. A distanza di cinque anni le comunità spostate non hanno accesso all’energia elettrica e agli altri servizi di base, il bacino di 63 Km2 di estensione ha causato un sensibile aumento dell’incidenza della malaria e di altre patologie trasmesse dagli insetti, le compensazioni non sono state adeguate alla perdita di terra coltivabile e da pascolo. La terra è anche oggetto di conflitto con le comunità ospitanti. A maggio del 2004, pochi mesi dopo l’inaugurazione della diga di Gilgel Gibe, l’Eepco e la Salini firmano un nuovo contratto per la costruzione dell’impianto idroelettrico Gilgel Gibe II. Costo previsto dell’impianto: 400 milioni di euro.
L’accordo viene firmato a trattativa diretta, in assenza di gara d’appalto internazionale, come invece prevedono le procedure del Ministero delle Finanze e dello Sviluppo Economico. “L’eccezione” viene giustificata dal Governo etiope e ripresa dai media locali affermando: “la profonda conoscenza del progetto della Salini e la dimostrata capacità di attirare donatori internazionali”, nonché dall’urgenza di colmare il deficit energetico.
Il progetto viene commissionato attraverso una tipologia di contratto “chiavi in mano” con il quale l’impresa esecutrice si assume pienamente il rischio tecnico del progetto e la consegna è fissata per dicembre 2007. Nonostante l’Italia sia stata più volte ammonita dall’Ocse per la cattiva abitudine dei cosiddetti “aiuti legati”, tale architettura si spinge ben oltre, rappresentando un vero e proprio aiuto commerciale camuffato da aiuto allo sviluppo contro la povertà. È da notare che nell’ambito dell’iniziativa Hipc (Heavily Indebted Poor Countries _ cancellazione del debito pubblico), l’Italia, al momento dell’approvazione del nuovo prestito, è in procinto di cancellare all’Etiopia circa 332 milioni di euro di debito bilaterale. La cancellazione è ratificata nel gennaio 2005, tre mesi dopo aver re-indebitato il Paese per una cifra di poco inferiore. Risultato: contabilità dell’Aps pompato. Tra il 2005 e il 2006 vengono avanzate due interrogazioni parlamentari, una alla Camera e una al Senato, sul finanziamento italiano per il progetto di Gilgel Gibe II e nel 2006 la magistratura apre un’inchiesta su diverse operazioni finanziate dalla Dgcs nel periodo 2004-2005.
Il filone dell’indagine relativo a Gilgel Gibe II viene archiviato nel febbraio del 2008 senza lasciare traccia. A luglio del 2006 la Salini e l’Eepco (Ethiopian Electric Power Corporation) firmano un nuovo contratto per la costruzione della diga Gilgel Gibe III, il più grande progetto idroelettrico mai realizzato in Etiopia, per un costo complessivo di 1,4 miliardi di euro. Lo scopo dichiarato del Governo etiope è quello di esportare l’elettricità in Kenya, considerato che attualmente solo il 6% della popolazione etiope è allacciato alla rete elettrica e con l’entrata in funzione dell’impianto Gibe II il fabbisogno nazionale di energia sarà ampiamente soddisfatto. Purtroppo però l’impianto è ancora lontano dall’essere completato e a causa di
problemi geologici incontrati durante lo scavo del tunnel, non è possibile produrre energia prima della fine del 2009. Nonostante la Salini abbia firmato un contratto “chiavi in mano” che le conferisce totale responsabilità nella realizzazione e funzionamento dell’opera, essa non è tenuta a pagare nessuna penale per il ritardo accumulato. Infatti, di comune accordo, le due parti hanno iniziato i lavori in assenza di studi geologici adeguati includendo una clausola di eccezionalità per eventuali ritardi dovuti alla conformazione del terreno. Nonostante ciò, anche il contratto di Gilgel Gibe III viene stipulato a trattativa diretta senza alcuna gara d’appalto internazionale. I lavori vengono avviati immediatamente, in assenza del permesso ambientale dell’agenzia nazionale preposta, esattamente come accaduto per l’impianto di Gibe II. La diga è localizzata in una zona particolarmente sensibile dal punto di vista sociale ed ambientale. L’Omo nasce dalla confluenza dei fiumi Gibe e Gojeb formando un lungo canyon per poi attraversare l’omonimo Parco Nazionale e sfociare nel lago Turkana, al confine con il Kenya. Lungo le sue sponde risiedono diverse comunità tribali, la cui sicurezza alimentare dipende strettamente dalle risorse naturali e dal delicato equilibrio dell’ecosistema locale. Il fiume offre, inoltre, un habitat unico per l’incredibile varietà faunistica. Nel 1980 la bassa valle dell’Omo è stata riconosciuta, dall’Unesco, patrimonio dell’umanità per i numerosi ritrovamenti di scheletri appartenenti al genere australopithecus e homo, insieme ad utensili di quarzite risalenti a diversi milioni di anni fa. La diga, come da progetto, sbarra completamente il corso del fiume, e provoca la completa inondazione del canyon e la creazione di un bacino lungo più di 150 Km, alterando profondamente i cicli del fiume sui quali si basa l’agricoltura delle comunità locali. La costruzione della diga è iniziata in assenza di un credibile piano finanziario e sta incontrando difficoltà nella ricerca del sostegno economico necessario. I potenziali finanziatori pubblici in gioco sono la Banca Africana di Sviluppo, la Banca Europea per gli Investimenti ed il Governo italiano; consultato dalle autorità etiopi, nell’estate del 2007, il ministro degli Esteri ha dato una risposta sostanzialmente attendista: Gibe III è subordinata alla chiusura del cantiere di Gibe II. Staremo a vedere come si comporterà l’Italia e se, anche questa volta, la Dgcs riuscirà a camuffare in aiuto allo sviluppo un regalo ad una nota impresa italiana, consentendo l’ennesimo scempio in terra d’Africa, il tutto contabilizzato nella voce Aps.

Effetti perversi: la cooperazione allo sviluppo negli Stati-mafia

Le politiche e gli interventi di cooperazione allo sviluppo nei Paesi che, in base alle analisi precedentemente riportate, si configurano come Stati-mafia, generano dei veri e propri “effetti perversi” che non permettono, ma anzi ostacolano, il reale sviluppo economico ed umano dei popoli interessati. Tali “effetti perversi”, secondo Umberto Gori, vanno ricondotti ai meccanismi di corruzione interna attraverso i quali una parte consistente dei finanziamenti destinati alla cooperazione finisce per arricchire le élite politico-mafiose nazionaliste, oggi al potere, in diversi paesi dell’area (si fa riferimento ai Balcani): tali élite rappresentano il principale fattore d’instabilità e violenza interetnica. Per esempio, in Kosovo, le istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Banca Europea) fanno parte del sistema da mungere senza scrupoli. Una dimostrazione pratica, dello “sviluppo perverso”, sta nella costruzione di una “nuova” centrale elettrica a carbone, nata a fianco di altre due centrali già esistenti. Centrali elettriche totalmente inutili, se si considera il fatto che le due strutture già esistenti esportavano la loro energia al di fuori del loro territorio. Un modo come un altro per spendere, e infatti sono stati spesi, miliardi di dollari in consulenze e progetti. I soldi pompati alla comunità internazionale, e in buona parte introdotti dalla criminalità locale (ai fini del riciclaggio), vengono indirizzati verso una violenta logica di privatizzazione: nel 2003, 7 imprese, dal valore stimato di 9,2 milioni di dollari, vengono svendute per 4,6 milioni, ma questo è ben poco se paragonato alla svendita, effettuata nello stesso anno per un totale di 24,7 milioni di dollari, delle 20 imprese il cui reale valore corrispondeva a 136,6 milioni. Gli attori determinanti del “circolo vizioso” sono la miriade di Consiglieri che, all’interno dello stesso Kosovo, alimentano e creano problemi alle aspettative di sviluppo.

CONCLUDENDO, approdo a delle proposte che vogliono migliorare le politiche di Cooperazione allo sviluppo italiane:

1. Potenziamento degli strumenti di monitoraggio sui programmi e sui progetti in cui è coinvolta la Cooperazione italiana allo sviluppo;

2. Snellimento delle procedure e dei tempi per l’avvio di progetti e programmi della Cooperazione italiana allo sviluppo;

3. Riorganizzazione della Direzione Generale della Cooperazione allo sviluppo, rendendola autonoma (ossia: Agenzia per la Cooperazione allo sviluppo).


Per realizzare quanto detto, serve una sola condizione: la politica deve rispettare gli impegni presi. Anche se poi ci troviamo a fare i conti con una realtà in cui, Pierpaolo Pasolini afferma:“il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”.


VincEnzo Monaco Palermo, 21 Ottobre 2009



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