mercoledì 2 febbraio 2011

Fino a qui tutto bene...


“La casa brucia…”, non sono io a dirlo ma il presidente Chirac a Johannesburg. Se nel 1954 Jacques Ellul sembrava un profeta del malaugurio, sappiamo ormai tutti che stiamo andando contro il muro. Non c’è più bisogno di fare la lista delle catostrofi ecologiche presenti e annunciate non è più da fare. Lo sappiamo tutti benissimo, ma non lo realizziamo. Lo scontro non è immaginabile prima che si sia prodotto. Sappiamo anche benissimo quello che bisognerebbe fare; iniziare la decrescita per l’appunto. Ma non facciamo nulla. “Guardiamo altrove…” mentre la casa finisce di bruciare. Bisogna dire a nostra discolpa, che i “responsabili” sia politici che economici ci inducono a questo atteggiamento. Nel frattempo, questi pompieri-piromani gettano ancora olio/petrolio sul fuoco urlando che è l’unico modo per spegnerlo. E continuiamo, dunque, a fare sempre di più la stessa cosa.

Questa posizione “pro-crescita” è largamente condivisa, in fondo, dalla sinistra, compresi gli “altro-mondialisti”, che vedono nella crescita anche la soluzione dei problemi sociali, in quanto crea posti di lavoro e favorisce una ripartizione più equa. L’annuncio trionfale sui giornali della ripresa americana, dei piani di rilancio franco-tedeschi o europei, si basa sui grandi lavori (infrastrutture per i trasporti) che non possono che deteriorare la situazione (in particolare climatica). D’altro canto, siamo colpiti dall’assordante silenzio dei socialisti, dei comunisti, dei verdi, dell’estrema sinistra… Unica vocina discordante, Jean-Marie Harribey, Alain Lipietz e i responsabili di ATTAC (Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per l’aiuto) che propongono un “rallentamento della crescita”. Una proposta che parte da un buon sentimento, ma infelice in quanto ci priva sia dei benefici della crescita che dei vantaggi della decrescita…

Serge Latouche


In Altre Parole, citando Jacques Ellul: “Sarà una soddisfazione assolutamente positiva quella di mangiare alimenti sani, di avere meno rumore, di essere in un ambiente equilibrato, di non subire più le limitazioni del traffico…”



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Oggi voglio ricordare: Paolo Bongiorno


Uomo e sindacalista ucciso dalla mafia il 27 settembre 1960.

Aveva 38 anni.

Paolo Bongiorno nacque il 30 luglio 1922 a Cattolica Eraclea, paese dove visse fino all’età di 26 anni, insieme ai genitori, ai fratelli e alle sorelle. Figlio di Giuseppe Bongiorno e di Giuseppina Renda, una povera famiglia contadina, il padre faceva “u jurnataru” (lavorava a giornata), la madre era casalinga. Paolo, malgrado la povertà, riuscì a prendere la licenza elementare. Animato da una forte volontà, a scuola imparò a leggere e a scrivere, ma la miseria di quegli anni costrinse sin da ragazzini Paolo e i fratelli a duri lavori in campagna, come quello di raccogliere la liquirizia al fiume Platani per venderla ai commercianti. Nel contempo, quando trovava lavoro, faceva anche lui “u jurnataru”. La licenza elementare acquisita durante gli anni del fascismo, cosa difficilissima all’epoca per i figli dei poveri contadini, fornì a Paolo non solo la capacità di leggere e scrivere, ma anche, crescendo, uno strumento in più per comprendere meglio la realtà sociale e politica del periodo storico che stava vivendo il paese. Superati gli anni da Balilla, obbligatori per frequentare la scuola durante il fascismo, Paolo non si fece imbonire dall’indottrinamento di regime e cominciarono a piacergli le idee socialiste.

Ma nel 1947 Paolo fu costretto ad abbandonare la lotta per la terra poiché i carabinieri lo arrestarono per un reato commesso molti anni prima.

Vi era stato un diverbio tra la sorella di Paolo, Concetta, e una vicina di casa.

Il marito di quest’ultima avrebbe insultato pesantemente la sorella di Bongiorno, Paolo e uno dei suoi fratelli, avuta la notizia, aggredirono il marito della donna. Avvertiti da alcuni vicini di casa, intervennero i carabinieri della locale stazione, Paolo e il fratello furono denunciati a piede libero ma furono poi arrestati nel 1947 e scontarono circa diciotto mesi di carcere.

Paolo Bongiorno si sposò il 22 0ttobre del 1944, con Francesca Alfano. La coppia metterà al mondo sei figli: Giuseppe, Pietro, Giuseppina, Salvatore, Elisabetta e Paolina, quest’ultima nata dopo la sua morte.

Nel 1949, scontata la pena carceraria, Paolo Bongiorno, insieme alla famiglia, da Cattolica Eraclea si trasferì a Lucca Sicula dove già viveva la famiglia della moglie.

Povero e dignitoso, Paolo ricominciò subito a lavorare come bracciante agricolo.

Ma a Lucca Sicula le cose non andavano bene, c’era poco lavoro, duro e mal pagato; anche Paolo scelse la strada dell’emigrazione. Andò a lavorare in Francia come manovale, ma il soggiorno francese fu breve, quaranta giorni circa. La nostalgia per la moglie, i figli e la propria terra richiamò Paolo presto in Sicilia. Ricominciò a lavorare in campagna, riadattandosi a condizioni e paghe di lavoro pietose. Cercava una via di riscatto, senza tentennamenti preferì la strada dell’impegno politico.

Si avvicinò al partito comunista. Paolo Bongiorno, dopo un po’ di tempo di attività nel partito, fu nominato segretario della Camera del Lavoro locale. Con passione, il neo segretario della Camera del Lavoro cominciò ad interessarsi localmente dei problemi che assillavano la categoria dei braccianti. Come tutti i sindacalisti, anche Paolo disbrigava agli anziani le pratiche previdenziali, «una volta una signora rimase talmente contenta di aver ottenuto la pensione che voleva ricompensarlo donandogli una parte della sua prima pensione, ma lui non l’accettò e rifiutò anche i due litri di olio che, come semplice ricordo, la signora gli volle donare e le disse che, se proprio ci teneva, doveva venderlo e portare i soldi alla Camera del Lavoro così gli iscritti avrebbero potuto pagare parte delle spese per tenere attivo l’ufficio».

Ma più cresceva l’impegno di Paolo Buongiorno nella Camera del Lavoro, più crescevano le possibilità che lui non trovasse occupazione. I datori di lavoro evitavano di assumerlo, gli era sempre più difficile, infatti, trovare un’occupazione stabile, eterna vita da precario, da lavoratore a giornata.

L’impegno nel sindacato e nel partito, il lavoro sempre più difficile a trovarsi, la necessità di dover sostenere una famiglia con cinque figli, causarono a Paolo un lieve esaurimento nervoso. «Nel settembre del 1959 diede evidenti segni di nervosismo tanto che si ritenne opportuno farlo ricoverare presso la clinica D’Anna di Palermo, ove permase degente per circa un mese». Dopo un mese di ricovero in clinica Paolo risultò completamente ristabilito e non diede alcun segno di alienazione. Ritornò a lavorare in campagna e al sindacato.

Per lui ricominciarono le minacce. Racconta la sorella Concetta che proprio qualche mese prima che venisse ucciso Paolo, davanti al cimitero di Lucca Sicula, era stato minacciato da due noti mafiosi locali. Oltre all’impegno sindacale e politico, per Paolo si stava avvicinando anche quello istituzionale. Visto l’impegno profuso nel partito sin dal 1944, Paolo Bongiorno fu inserito nelle liste dei candidati del Pci al consiglio comunale per le elezioni del 1960 e, forse, il partito puntava su di lui per la candidatura a sindaco. Fu però assassinato a colpi di arma da fuoco mentre rientrava a casa.

Era la sera del 27 settembre del 1960, Paolo Bongiorno, dopo una riunione del partito, stava rincasando in compagnia del giovane nipote Giuseppe Alfano, leader dei giovani comunisti. Come ogni sera, Paolo, uscendo dai locali della Camera del Lavoro di Lucca Sicula, della quale era segretario, ritornava a casa attraversando le vie del centro storico del piccolo centro montanaro dell’agrigentino, abitato da circa tremila abitanti. Chiacchierando, zio e nipote avevano già percorso la via Teatro e la via Centrale. Erano le 22:30 circa quando, giunti a pochi metri dall’abitazione, due scariche di lupara, sparate da ignoti killer nascosti dietro lo spigolo di un muro, colpirono alla schiena Paolo Bongiorno. Lui emise un forte grido di dolore e, dopo aver fatto alcuni balzi in avanti, stramazzò al suolo in fin di vita.

In paese era stimato e apprezzato da tutti, ma ad alcune “cricche” cominciava a dare fastidio. Reclamava più diritti sociali, un salario più alto, condizioni e orari di lavoro più dignitosi. In un paese e in un periodo in cui, di diritti, chi doveva, ne concedeva ben pochi. Dunque arrivò anche per Bongiorno il tempo della lupara. Due colpi alla schiena, i colpi di grazia della mafia. Perché chi doveva capire capisse.

A dare l’estremo saluto al valente dirigente politico giunsero il segretario regionale della Camera del Lavoro, Pio La Torre (anche lui, nel 1982, sarà ucciso dalla mafia) e i dirigenti del Partito comunista, Guglielmini e Nando Russo. A porgere le condoglianze ai parenti della vittima, anche l’onorevole socialista Taormina, i dipendenti del Banco di Sicilia e i familiari di Accursio Miraglia, il segretario della Camera del Lavoro Sciacca, ucciso dalla mafia agraria nel 1947, anche alla vigilia delle elezioni.


Fonte: Onore agli eroi




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